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La conoscenza del cliente: quando da opportunità si trasforma in limite allo sviluppo commerciale

Da undici anni ci occupiamo di consulenza e formazione con il personale delle reti commerciali di banche di credito cooperativo. Di conseguenza, ho conosciuto centinaia di operatori, operatrici, consulenti, responsabili di filiale e una delle affermazioni in cui mi sono imbattuta con maggiore frequenza è la seguente: “per fare sviluppo bisogna conoscere i clienti, bisogna conoscerli bene”.

E’ proprio così. Credo di poter affermare, senza timore di essere smentita, che la conoscenza del cliente sia una condizione necessaria alla vendita. Soprattutto alla vendita che s’inserisce in un rapporto continuativo, in cui la fiducia rappresenta un sentimento fondamentale affinché il cliente sia disposto a dare continuità agli acquisti nel tempo. Conoscenza e fiducia assumono particolare valore perché alla banca, che opera attraverso il consulente, si affidano i risparmi di una vita, si chiede il mutuo per comprare la prima casa, si sottoscrivono polizze per proteggersi, proteggere i propri familiari e il proprio patrimonio, piccolo o grande che sia.

Quindi, non mi sorprende che le persone di filiale attribuiscano alla conoscenza dei clienti una grande rilevanza e dedichino buona parte delle loro energie a creare relazioni solide, prestando attenzione e cura alle loro esigenze. Innumerevoli volte mi sono sentita raccontare dell’aiuto offerto per insegnare al cliente meno “smart” ad utilizzare il servizio di home banking, piuttosto che per scaricare un’app sul cellulare o per accompagnare il cliente alla cassa self, mostrandogli l’operatività e guidandolo nelle prime operazioni. Altrettante volte mi hanno parlato di clienti di cui conoscono praticamente tutto, dalla situazione familiare a quella lavorativa, per finire a quella patrimoniale. Tutto ciò è innegabilmente importante e rappresenta uno dei tratti distintivi del servizio al cliente delle banche di credito cooperativo.

Allora se le cose stanno così, che cosa può trasformare la conoscenza da opportunità in limite?

A questo punto, vi racconto la testimonianza che ho raccolto all’inizio dello scorso anno da Rossana, una consulente titoli che ho conosciuto nell’ambito di un intervento formativo con la sua banca. Era appena rientrata dalla maternità, passando dal ruolo di vice responsabile di una filiale di piccole dimensioni a quello di addetta titoli in una con un organico ben più ampio. Il percorso formativo, incentrato sul modello della consulenza globale applicato all’area degli investimenti, prevedeva alcune giornate d’aula, a cui seguivano delle sessioni di laboratorio delle competenze per allenare il metodo in un contesto protetto. In occasione di un laboratorio, mi parla del caso di una coppia di clienti neopensionati alla quale aveva proposto un primo appuntamento per presentarsi e valutare come gestire la liquidità di 60.000 euro, ferma sul conto cointestato. La coppia, nella filiale, era ben conosciuta e aveva la “fama” di essere molto resistente agli investimenti e di fatto, fino a quel momento, i risparmi erano mantenuti liquidi, ma Rossana, non avendo esperienze pregresse con questi signori, non si lascia condizionare da chi sostiene che vederli sia tempo perso. Nell’incontro offre loro una consulenza partendo da un’intervista, che avevamo predisposto in aula, per raccogliere informazioni sulla loro situazione complessiva: familiare, patrimoniale sia dal punto di vista immobiliare che mobiliare, su eventuali progetti di spesa, per poi fare loro alcune proposte in risposta agli obiettivi che avevano preso in considerazione. Le domande iniziali le hanno permesso di scoprire che la coppia aveva risparmi allocati presso altri due istituti, e che in uno di essi erano seguiti da un gestore private. Il risultato raggiunto è che i clienti hanno investito una parte dei 60.000 euro già allocati presso la filiale, ma non si sono fermati. Dopo circa un mese dal primo appuntamento le hanno portato 180.000 euro da una delle altre due banche di riferimento con cui avevano estinto il rapporto, e dopo sei mesi ne sono arrivati altri 300.000 dalla terza, tutti investiti in fondi e polizze. Non sto sostenendo che ogni consulenza generi un risultato così eclatante. Certamente non può arrivare se non ci si prova, basandosi su ciò che è accaduto in passato.

Ho deciso di scrivere su questa vicenda perché induce ad interrogarsi sulla natura ambivalente della conoscenza del cliente. Se, da un lato, si può ribadire con convinzione che una conoscenza approfondita del cliente, unita ad una relazione solida, faciliti la vendita e il raggiungimento dei risultati attesi, dall’altro non dobbiamo sottovalutare il rischio di cristallizzare quella conoscenza, pensando che nel percorso di vita del cliente non vi siano cambiamenti e dando per scontato di sapere esattamente di che cosa abbia bisogno.

Da opportunità, la conoscenza può trasformarsi in limite allo sviluppo tutte le volte in cui smettiamo di fare domande, perché pensiamo di conoscere già le risposte. Diventa limite quando nella consulenza finanziaria, ad esempio, basiamo le proposte sulle scelte precedenti, escludendo a priori che il cliente sia disposto a cogliere opportunità nuove e diverse rispetto al passato, perché siamo ancorati al suo profilo di rischio che, proprio attraverso la consulenza, potrebbe modificarsi, come previsto anche dalla possibilità di aggiornare il questionario Mifid dopo un anno. 

Con i clienti conosciuti e più fidelizzati rischiamo di inserire una sorta di “pilota automatico”, smettendo di esplorare e far emergere nuovi possibili bisogni latenti. E questa tendenza porta, in tanti casi, a perdere l’abitudine di orientare una parte dell’interazione alla raccolta di informazioni situazionali anche laddove sarebbe ancora più necessario, perché il cliente è poco conosciuto, con un effetto paradossale che impatta negativamente sull’efficacia delle proposte. Infatti, quando le proposte non sono agganciate ai bisogni che il cliente ha riconosciuto di avere e di voler soddisfare, aumenta enormemente la probabilità che siano rifiutate.

Concludo invitando ad una riflessione su questi meccanismi distorsivi che possono condizionare inconsapevolmente i nostri comportamenti, rappresentando veri e propri ostacoli allo sviluppo commerciale. Una via d’uscita è quella di rimanere aperti alla co-costruzione con il cliente, contemplando che il cambiamento è sempre possibile e dipende tanto da come ci poniamo nei confronti dei clienti stessi. Oltre all’apertura mentale, a fare la differenza è il fatto di possedere un metodo che delinea il processo di consulenza, nel quale vi è una fase di analisi strutturata con domande specifiche e finalizzate a cogliere eventuali cambiamenti o ad acquisire informazioni non possedute, senza lasciare che sia il caso a farli emergere in una chiacchierata informale. Nei percorsi formativi creiamo una griglia d’intervista molto precisa e lavoriamo sul modo di porre le domande, affinché nella percezione del cliente sia chiaro che vengono fatte proprio per personalizzare la consulenza.

Monica Giannoni
Resp. Didattica BCC al Quadrato

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